L’a ltrov e dell’imma gine: riv ela re la liturgia del monocromo, Matteo Galbiati, 2012

Monocromo. Ancora monocromo! Sempre la stessa cosa? Possibile comprendere e riconoscere di un artista il tono di una personalità, di un’anima, di un’identità specifica ed individuale in un lavoro che s’infittisce sull’esclusività cromatica di un colore solo, che nella sua unicità, spesso prepotente, pare adombrare ogni inflessione singolare e contingente?

Si può ancora parlare oggi del valore e del senso vitale di un’espressione che occulta le capacità artistiche e le attitudini creative e che sembra allontanarsi da ogni legame con la realtà possibile ed eventuale, isolandosi nella semplicità dell’assoluto?

 

È possibile certo, anzi forse oggi diventa ancor più doveroso e necessario appellarsi a queste forme di rigore ascetico laddove vi sia una tangibile forza emotiva impressa nel colore –per riacquistare il senso dell’ordine e della misura, per ripulire lo sguardo affaticato e riattivare la facoltà intellettiva. Per capire semplicemente che l’arte conduce ad un’immagine che risiede altrove, che sta ben oltre la sottile pellicola della tela dipinta, oltre il confine di un telaio o di figure-rappresentazioni che, quantunque ineccepibili sotto il profilo della tecnica e della perizia, rimangono esercizi didascalicamente formali che galleggiano sulla superficie, ma non si addentrano mai nella profondità della visione.

 

Senza facili o superbi elitarismi il monocromo conduce oltre. Certa pittura (e fotografia) monocroma rimane oggi una fonte inesauribile di energia sempre viva, di là dal tempo, dalle mode, dall’attimo. Immergersi nel monocromo –avendo cura di prestar credito ai propri occhi e alla loro capacità di osservare e penetrare –significa attuare un’evasione nei territori liberi dell’arte, laddove l’intuizione può ricongiungersi ancora col pensiero. Arte come mistero da svelare, come indagine da sciogliere e non icona da farsi bastare con sufficienza. Occorre oggi per recuperare proprio quel un senso di mistero –e di spiritualità ad esso legata –che pare smarrita e perduta, oggi quando conosciamo –o forse assistiamo impotenti –ad una proliferazione senza controllo delle immagini, che straripano da accademie, riviste, gallerie, mostre, fiere non meno che dal nostro quotidiano.

 

Nel monocromo possiamo comprendere quella severità –che non necessariamente si accompagna alla rigidità –che conduce all’attenzione del riflettere, del pensare a temi altri. Senza essere algidamente seri e distaccati dal sentimento o dall’animo. Necessitiamo di questo ordine e dobbiamo riconoscere a quegli artisti, che fanno della loro disciplina silenziosa e meditativa la chiave di volta di un sistema di pensiero, un’attenzione estrema a farsi dentro al tempo e alla vita dell’uomo. Anche se sembrano essere così esclusivamente isolati e distanti. Quella distanza ascetica, di cui si è detto, si lega invece all’essenza e all’esistenza umana, rimane permeata di questa e della lunga storia passata dell’uomo. E si apre anche al suo indecifrabile futuro. Quasi con la lungimiranza dei vati o la preveggenza dei profeti.

 

Lo scetticismo infausto e ridanciano che accoglie spesso queste opere rimane figlio degenere del nostro tempo, della nostra idea di evoluzione massima, raggiunta e vissuta nel presente iper tecnologico e super-comunicativo, eppure così volgarmente indolente rispetto allo sforzo minimo che chiede la concentrazione della riflessione, della meditazione, della poesia (non solo nel senso letterario!), per le quali abbiamo davvero una scarsa attitudine. Del resto tutto si consuma veloce e immediatamente, perché „sprecare“ tempo per capire le opere d’arte e per di più monocrome? Perché, come si diceva, diventa prioritario; non è una perdita di tempo, non sono astruse semplificazioni disimpegnate o le solite provocazioni con le quali si giustifica l’in-comprensione dell’arte, ma un fattore di riequilibrio dell’individuale pensare rispetto al tempo circostanziato della propria esistenza. In questo si rintraccia una prassi –nel fare monocromo –interpretabile come una liturgia laica, una spiritualità non religiosa che filtra dall’operare dell’artista, attraverso lo sguardo, al profondo di chi osserva. Un rito, quello dell’opera, un rito quello della visione. Con un tempo esclusivo, diverso. Pieno di silenzio e di attesa della manifestazione altra, della prova tangibile che attende dietro l’immagine. Si deve quindi guardare altroveper trovare la giusta immagine-sensazione, in quell’altrove i cui confini il monocromo spalanca con immediata naturalezza.

 

Rimane poi un affascinante mistero, calato nel D.N.A. dei singoli artisti, come questa pittura ridotta al minimo termine possa rinnovarsi in ciascuno in una maniera unica, personale, indelebilmente vicina all’individuo da diventare per loro una nuova impronta digitale. Del resto sappiamo bene c’è monocromo e monocromo. Non tutte le opere sono uguali, identiche.

 

Se si è accennato al valore attualissimo della pittura monocroma, individuare i caratteri specifici di ciascun artista potrebbe diventare oggetto di un’approfondita indagine e ricerca di cui questa mostra offre uno spaccato interessante e intrigante, accostando le opere –diverse –di tre artiste affermate, i cui trascorsi non richiedono certo sofisticate presentazioni.

 

Renate Balda, Sonia Costantini, che sono due pittrici, e Inge Dick, che è una fotografa, sono legate –già in svariate altre precedenti occasioni hanno condiviso la loro presenza in mostre e progetti espositivi –da una profonda stima ed amicizia, da un sincero apprezzamento delle rispettive ricerche e da uno scambio continuo di vedute, posizioni, riflessioni. Una premessa umana indispensabile e importante, che rimane un valore sotteso alle loro ricerche e agli scambi che tra queste intercorrono. Sarebbe un errore pensare che chi opera attuando la scelta o sopraggiungendo ad essa –del monocromo viva in una solitudine austera e si chiuda in un isolamento cautelare che ne salvaguardi, in qualche assurda maniera, la purezza della visione. Loro cercano, al contrario, il raffronto; si nutrono della reciprocità; desiderano un dialogo con il mondo, con l’ambiente esterno al santuario dello studio. Praticano un confronto con le immagini. Loro che scelgono poi, di annegarle, di stemperarle nella singola unità di un unico colore.

 

Tre donne, vicine per esperienze, unite da ideali corrispondenti. Tre caratteri simili eppure tanto differenti.

 

La presenza dialogante delle opere, che condividono lo stesso spazio nel momento dell’esposizione, introduce a numerose considerazioni che potrebbero orientarsi nel senso di un discorso unitario e congiunto. Si potrebbe delegare ad un’analisi generale la valutazione critica di tale incontro, con il preciso compito di parlare del complesso formale degli aspetti di queste ricerche unendole in un insieme indistinto e indistinguibile. Questo sarebbe un lavoro plausibile e percorribile, come spesso si fa in queste circostanze, però a ben vedere, forse, si scadrebbe a recensire una situazione contestualmente legata all’episodicità dell’evento. La forza poetica e l’intensità emozionale del linguaggio di Balda Costantini e Dick, tanto travolgente quanto trascinante, impongono naturalmente un approfondimento più puntuale.

 

Confrontando queste immagini, avendo modo di scorrere l’impronta figurale delle opere, forse torna utile evidenziare dei temi ricorrenti in ciascuna e, all’interno di queste macro aree, verificare l’analogia e la differenza, la contiguità e la distanza che anima le rispettive ricerche. Si deve pensare alle opere come a circostanze obiettive entro le quali estrarre le plusvalenze fisiognomiche di ciascuna di loro. Bisogna individuare le analogie per comprendere l’identità originale dove si incontra l’artista e il suo primo sguardo nell’opera.

 

Si fa un passo indietro verso la sua prima visione e si compie un balzo in avanti nella deducibilità dell’opera. Pochi contenuti, quasi un glossario minimo e interno alla loro pratica, diventa l’indice non scritto dei capitoli della loro sperimentazione continua. Dell’assidua e necessitante pratica del loro lavoro.

 

Colore

 

La sostanza cromatica èil primo ingrediente fondamentale per chi lavora in un contesto pittorico, soprattutto se, entro la superficie dell’opera, l’immagine affiora o affonda nell’impasto monocromatico. Il colore si pone come catalizzatore del tutto, attore protagonista di un monologo che si ripete e si rinnova nel tempo. Renate Balda e Sonia Costantini agiscono utilizzando un colore pittorico in senso stretto, la loro resta una pittura „da cavalletto“. Oli e pigmenti si mescolano in campionature di tonalità che si generano comescelta e tratto distintivi della loro visione. Entrambe mescolano il colore in modo alchemico, ottenendo sfumature che sono autenticamente loro. Diversa la risoluzione in cui viene steso sulla tela: Renate Balda procede per velature piatte e lisce, sedimentando la materia pittorica in trasparenze traslucide; Sonia Costantini attua un vero corpo a corpo con il colore. Lo spatola, lo incide, dando alla tela un rilievo corrugato, tellurico, geologico. Inge Dick, oltre ad utilizzare una pittura delicata, bianca, stesa per pennellate componenti un mosaico regolare e lievemente corrugato che lascia trapelare appena gli strati multicromatici sottostanti, principalmente fotografa. Pare incomprensibile identificare un’esperienza fotografica –polaroid di grandi formati –con un linguaggio quale quello del monocromo. La foto viene associata alla trascrizione veloce della realtà, duplicata attraverso il gesto veloce dello scatto, Inge Dick invece punta l’obiettivo sulla luce e questa non è più solo mezzo, ma oggetto. Le lunghe esposizioni raccolgono i passaggi della luce nel tempo filtrando ogni volta un colore specifico. Ecco quindi che anche Dick sviluppail suo colore, la sua unità cromatica. Le sue sequenze riportano i passaggi filtrati di luce –nel cielo o su singole superfici – duplicandosi in una moltitudine identica eppure impercettibilmente dissimile. Anche queste fotografie non risultano appiattite dall’individualità della tonalità perché verificano al loro interno una tensione biologica in divenire.

 

Ambiente-spazio

 

La presenza di questi lavori nel contesto della loro esposizione innesca –tratto condiviso da tutte le artiste –un processo di ri-definizione del luogo stesso. Le loro opere riescono, in modo sorprendentemente efficace, a segnare con forza lo spazio che le circonda. L’energia che si annida nelle loro trame sembra sempre in procinto di deflagrare e aprire nuovi orizzonti esplorativi. Pone chi osserva in una dimensione differente da quella che credeva appartenergli. L’ambiente si fa, quindi, ingranaggio di quella macchinazione complessa che è l’opera. L’idea, che questi oggetti coloratinon rimangano alieni al posto cui sono, di volta in volta, destinati, viene dichiarata anche dalla possibilità interna al lavoro stesso di rigenerarsi, catturando lecondizioni fisiche che lo circondano. Sono sottolineature evidenti dello spazio. Ancora una comunanza avvicina Balda e Costantini: in loro l’opera si genera nel chiuso del loro studio e si trasferisce poi ad una situazione esterna alla quale si adatta. In Dick avviene –escludendo ovviamente le opere ad olio –il procedimento contrario: lo scatto trae origine dall’ambiente esterno per ricollocarsi, in un secondo momento, in un luogo „protetto“ al quale cede gli stimoli desunti dalla natura nel suo passaggio temporalmente lento.

 

Luce

 

L’impalpabilità cangiante della luce da sempre influenza l’azione degli artisti e nella monocromia di Balda, Costantini e Dick diventa ancor più urgente e necessaria. La sua imperiosità risoluta, alla quale nulla può cedere, ricade sulle loro opere scuotendole nel profondo. Sotto la luce si elettrizzano, si animano ogni volta a nuova vita. La luce, effimera e volubile, innesca sulla finestra monocroma la densità ribollente di un cambiamento costante. La luce vivifica e apre il paesaggio, spalanca la soglia di quell’altrove in cui affiora inesorabile l’immagine e in cui, altrettanto inesorabilmente, si disperde. Queste implicazioni fanno vivere alle superfici un perenne stato di condizionamento della loro stessa ricerca: quello che ottengono le artiste si sposta sempre in uno spazio-tempo sconosciuto, nella sospesa attesa in cui si cala la visione successiva che fa svelare le opere come una sorpresa continua e costantemente ritrattata.

 

Lo sguardo si concentra nella profondità scavata o fatta emergere dalla pulsazione della superficie, in questo modo la luce sradica dalle mani dell’artista l’opera e la condiziona prepotentemente. La luce risente comunque del carattere di ciascuna di loro: il riverbero e la rifrazione si applicano alle superfici dipinte di Costantini e di Dick. Sui loro dipinti la luce intercetta le piccole variazioni dell’epidermide del colore per rigenerarsi rimbalzando sul tessuto cromatico. In questa intrusione dall’esterno sposta la sua gamma dal chiaro allo scuroo viceversa. In Balda invece la luce interna, celata sotto depositi di colori appiattiti, sorge vitalizzata da quella che, infusa dall’ambiente, si fa proiezione compatta, orientata e diretta. Per Inge Dick la luce resta doveroso mezzo per ottenere la fotografia –la foto rimane impossibile e non verificabile senza l’intervento luminoso –ma, in più, in sé la foto immortala e fissa la stessa luce: le sue polaroid fotografano e descrivono i passaggi e le variazioni delle sorgenti luminose nel corso di un’esposizione lunga e prolungata nel tempo.

 

Tempo

 

Il fattore tempo diventa una delle costanti nel loro modo di operare. Ciascuna artista impiega una temporalità specifica per arrivare al compimento dell’opera e la lunghezza dell’esecuzione diventa una nuova dimensione di senso del lavoro. Il tempo incide uno spazio significante. Interviene come elemento operativo sostanziale. Sonia Costantini e Renate Balda fanno della lentezza dell’operare una modalità esclusiva per la scrittura del colore che, assecondando la durata dei suoi istanti, permette loro di entrare in empatia con questo. Il perdurare del raffronto fisico con la sua corposità attiva una comprensione tale da sapere come dominarlo, controllarlo e pure lasciarlo sfuggire nei suoi territori di libertà.

 

Inge Dick rimane legata al periodo di esposizione della fotografia,: ore, giornate intere trascorrono scrivendo la loro impronta sulla carta fotografica. Una monocromia che viene dettata dalla sorgente esterna, dalla sua vibrazione cangiante che, tutti comprendiamo e vediamo, ma che non riusciamo a sentire perché si scandisce lenta e impercettibile. Dick sembra volercene dare la descrizione visiva, ci presenta la sua traccia, registrata in ciascuna minima, istante dopo istante, mutazione. Il tempo entra nel suo lavoro con una triplice variazione: abbiamo un tempo atmosferico, uno cronologico e uno operativo.

 

Ma il tempo non è solamente quello che riguarda l’artista e il suo lavoro, è anche quello della visione delle opere: mai così importante, come per questilavori, la contingenza diventa un soggetto comprimario. Un attore co-protagonista. Lo stato di presenza, l’esserci nel hic et nuncdella loro partecipazione è fondamentale. Questo vale per il pubblico, per gli osservatori che dialogano con le opere per laprima volta, ma anche per le stesse artiste che sempre si stupiscono –incanto che dimostra l’intelligenza del loro osservare e ricercare –della ri-vitalizzazione che assumono in quell’attimo determinato. Le opere vengono quindi viste sempre come un fenomeno nuovo e inatteso. Ancora ri-vedono quell’altrove continuo della loro figurazione.

 

Stratificazione

 

Si è visto come, per tutti gli aspetti precedenti –colore, ambiente-spazio, luce e tempo –un elemento ricorrente fosse il processo accumulativo e accrescitivo. Per ciascuno si verifica un procedimento che porta ad un’esclusiva sedimentazione e accumulazione di sensi, di concetti, di riflessioni oltre che di materia. L’opera assorbe in sé, e su di sé, la registrazione variante di tutte le contingenze dettata dall’invisibile, dal dato transeunte dell’intorno. L’opera, per questo, si accresce di esperienza, si sovraccarica di dati che invisibilmente rimangono impressi al suo interno; si fa costruzione inesorabile. Si sviluppa e matura come un organismo vivente. Tanto più è connessa e legata al suo essere nel mondo non come dato inalienabile e inalterabile, ma come parte del complesso delle sue trasformazioni e della sua storia. Sotto le pieghe del colore si addensa questa registrazione accrescitiva.A poco apoco non ci sarà più un’immagine unica, si addenseranno in trasparenza molte altre sommate dalle esperienze differenti, che vireranno il valore dettagliato dell’opera ad uno che la renda sempre più universale.

 

La stratificazione concettuale e mentale dei loro lavori è una possibilità che si verifica, però, come visto, anche nei dati che sono immediatamente e fisicamente leggibili: il colore stratificato e velato di Balda, la spatolatura sismica di Costantini, la partizione degli istanti in Dick. Possiamo ritrovare questa gestualità anche nelle opere su carta. Queste stratificazioni comportanoun’impressione corporale fisicamente e immediatamente deducibile dalle opere. Il contatto diretto dello sguardo ritrova dentro all’impasto cromatico –o nei suoi margini (Balda) –i segni reali di questi passaggi. Di quest’azione di scrittura ponderata e misurata delle artiste nella definizione dell’opera.

 

Storia

 

Non si possono pensare queste opere, per la loro forte modernità della loro monocromia che ancora spaventa l’analisi e il raffronto di un vasto pubblico, come isolate dal processo della storia. Non sono i frutti degenerati dell’oggi, ma crescono in seno alla conoscenza della storia e ne sono assolutamente i figli legittimi. La poesia di Renate Balda, Sonia Costantini e Inge Dick sono l’eredità preziosa dello sviluppo del pensiero dell’uomo, attraverso secoli di espressione artistica. Tutte e tre le artiste dichiarano –basta concentrarsi attentamente sullo spazio della tela e della fotografia –per ritrovare le giuste connessioni che, una volta percepite, sono tanto evidenti. Ricalcano i passi di una storia ben precisa, verso la quale si sentono tributarie e legate, storia che, come detto, diventa un occulto stereogramma in seno al corpo-colore di ciascun lavoro.

 

Sonia Costantini colpisce per la carica rinascimentale dei suoi colori: osservare le sue immagini riporta alla mente la chiarezza e la potenza luminosa delle tonalità di Piero della Francesca (uno su tutti gli altri). Costantini parla un linguaggio legatoal nostro tempo ricorrendo alla radice primaria dei suoi azzurri, dei suoi bianchi, dei suoi rossi, … e nell’assoluta certezza del monocromo ne restituisce, rimanendo sé stessa senza smarrirsi nel mero citazionismo, la monumentalità geometrica del grande artista del Rinascimento. Renate Balda si adopera in una cura più sentimentale del colore che resta soffuso, delicato, elevato dalla natura e posto oltre questa stessa. Modo di operare che l’avvicina, per certi versi, al Manierismo. La sua ricercatezza diventa preziosa e impegnata dedizione alla pratica e all’esercizio del colore che lascia emergere una grande competenza tecnica come artista. Attenzione viene richiesta anche all’occhio di chi osserva, facendo maturare una nuova competenza lessicale anche alfruitore di queste opere. Allo stesso modo in cui avveniva nel Cinquecento.

 

Inge Dick mantiene un saldo e stretto legame con la fotografia delle origini che ritroviamo tanto negli strumenti tecnici, quanto nelle procedure. Utilizza una macchina fotografica di enormi dimensioni – sembra un residuo archeologico della proto-fotografia ottocentesca –che richiede una notevole perizia per poter essere usata e, per quanto riguarda i procedimenti di realizzazione, anche in lei ritroviamo una fotografia non basatasu un semplice click, ma una tecnica che necessita di lunghe attese e di grandi pause. Esposizioni lunghe, obiettivo aperto per ore e tempi d’impressione che segnano la pellicola con decisione la avvicinano alle esperienze di Joseph Nicéphore Niépceo di William Fox-Talbot. Dick ricorre ad una fotografia che, pur incentrandosi nell’opera finita sul suo valore pittorico, nella realizzazione dimostra ancora la freschezza, l’intuizione e la determinazione dei suoi aspetti pionieristici.

 

Questi sono brevi esempi –necessiteranno di un approfondimento ulteriore –che verificano come la storia –e la storia artistica nello specifico –affiori con vigore dai loro lavori. Storia che rimbalza nel cuore della visione e apre nuove strade, nuove possibilità. Una storiache, se letta nel giusto modo, è in grado diattenuare, nello spettatore forse meno accorto e pronto, il senso di un plausibile smarrimento di fronte al monocromo.

 

In questa mostra ci sono solo alcune partiture della storia vasta della monocromia, pochi brani sufficienti per intonare, qui, un concerto suonato a tre voci. Dimostrazione di tre individualità che dalla stessa melodia, seguono ciascuna un preciso spartito. Tre musicalità sottilmente differenti pur accordate. E come l’opera richiede un minimo sforzo di concentrazione, la stessa s’impiega per comprendere queste analogie e queste differenze. Basta mettersi all’ascolto. Con gli occhi, curiosi e liberi da pregiudizi.

 

Bisogna esorcizzare lo stordimento dalla proliferazione baroccheggiante delle forme, dei temi, dei contenuti, delle suggestioni quotidiane, che invece di sensibilizzare, anestetizzano le nostre coscienze. Dobbiamo imparare a recuperare un ordine della visione, a fare una ripulitura estetica del superfluo datoci della contemporaneità. Nella velocità dei processi, con cui oggi si consumano le immagini, le icone, di qualunque tipo, si genera un vortice che tutto risucchia e nel suo mulinare disorienta lo sguardo. Dobbiamo rilevare come queste opere rimangano punti fissi. Sono punti cardinaliper orientare e indirizzare la comprensione di un’immagine che non si circoscrive nell’unitarietà e nell’unicità dell’opera, ma che si allontana sempre in territori da esplorare. Non si possono avere tentennamenti, tutto procede e decorre nell’esplicita ediretta immediatezza di un solo colore. Allora ancora sì al monocromo.

 

Renate Balda, Sonia Costantini e Inge Dick presentano lavori che sono una soglia, un confine vivo e vitale, che non tendono ad un assoluto invisibile e ipotetico, forse astratto e irrealizzabile, neppure cedono alla soddisfazione di regalare un piccolo piacere legato al compiacimento del possesso di un qualcosa celebrato dal culto o –peggio –dalla moda dei più, ma spostano l’oggetto del proprio vedere concretamente oltre la schiettezza tangibile dell’attimo.

 

Ed é in questa traslazione che il sentire s’incontra, nell’esperienza, con la capacità di un sano, puro e autentico pensiero. Ancora umanamente possibile.

 

Matteo Galbiati Marzo 2012